n. 1 Gennaio-Marzo 2009 - Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie
     
 
Periodico trimestrale d'informazione sulle Cause di Canonizzazione del Servo di Dio sac. Raffaele Dimiccoli e del Servo di Dio sac. Ruggero Caputo
 

Cristo, Paolo, i Servi di Dio
don Dimiccoli e don Caputo… una catena di santità

È noto a tutti che siamo nell’Anno Paolino.
Ricorre infatti il secondo millennio dalla nascita di Paolo di Tarso, avvenuta presumibilmente verso l’8-9 d.C. Per tale occasione papa Benedetto XVI ha esteso a tutta la Chiesa l’invito a meditare sulla figura e gli insegnamenti di questo grande apostolo, grazie al quale il messaggio del Vangelo ha avuto un forte slancio di diffusione.
Qual è la grandezza di Paolo? Perché la sua vita è così straordinaria e ancora contagiosa, nonostante siano trascorsi tanti secoli dal suo passaggio terreno? La risposta è semplice: si è innamorato di Cristo e ha donato la sua vita a Lui. Il suo amore è stato così grande da diventare instancabile araldo del Vangelo, pur rimanendo, al contempo, contemplativo fino in fondo di Lui. L’opera della Grazia ha trovato in Paolo un terreno così favorevole tanto da renderlo alter Christus: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Egli ha saputo coniugare l’impetuosità dello sforzo per l’annuncio (viaggi, pericoli, arresti, naufragi, confronto con nuove culture) alla pacatezza di chi si ritiene sempre abbandonato alla volontà di Dio, pur tra le difficoltà della vita (lunghi anni di prigionia, sconfitte, tradimenti). Questi elementi qualificano Paolo come modello di ogni missionario. Ma anche modello di ogni contemplativo.
La ricchezza della sua vita ci permette di esplorare da molteplici angolature le svariate sfaccettature della vita cristiana.
Ed è proprio per questo che vogliamo affiancare i nostri Servi di Dio all’Apostolo delle genti, scoprendo così che anche per loro egli è stato modello ispiratore e maestro di saggezza.
Don Raffaele Dimiccoli, come è noto, ha speso gran parte della sua vita per portare dignità umana e messaggio evangelico in una zona povera e periferica della Barletta del suo tempo, acquistando quel piccolo mulino poi trasformato in oratorio. Quante difficoltà e quante incomprensioni ha dovuto sopportare! Quale sforzo e impegno ha dovuto profondere per questa causa! Come non leggere tale “ansia apostolica” con le parole dell’Apostolo: “mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno.
Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro” (1Cor 9,22-23)?
Sfogliando l’epistolario di don Dimiccoli pare risentire lo stesso linguaggio e il medesimo amore che Paolo portava per tutte le Chiese. Stralciamo da una sua lettera del 20 agosto 1932, indirizzata alla sua prediletta suor Pia Raffaella Rizzi: “Chi lo crederebbe che in questo posticino della città, remoto da ogni luce di civiltà e progresso umano, debbano fremere tanti cuori in esplosioni di viva e santa Carità da trasportarci in atmosfere celesti!!!
Deo gratias et Mariae!
Si ha voglia a moltiplicare le distanze con centinaia di chilometri, a moltiplicare mesi e mesi di lontananza, la Carità vola e raccoglie in un continuo atto meraviglioso di presenza e vive... vive, mia cara, allorché sul quadrante del nostro Oratorio suonano certe ore, il Signore mi procura delle gioie inesprimibili: mi sento di essere un padre felice di una sì grande famiglia che quantunque abbia parecchi membri sparsi pel mondo pure hanno un medesimo palpito: Gesù; un medesimo ideale: l’Apostolato; una medesima corda: l’Unum di Gesù nell’ultima Cena”.
Tutta l’esistenza di don Raffaele fu protesa ad imitare Cristo per essere, a sua volta, fermento di santità nel proprio ambiente: “Io sono lo specchio nel quale vi dovete ammirare!”, diceva spesso ai suoi fedeli.
Avrebbe potuto avere una vita tranquilla, arroccata nelle consuete faccende da sacrestia, senza avere contrasti e difficoltà di sorta; eppure sembra aver detto: “quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui” (Fil 3,7-9).
Don Ruggero Caputo, ha vissuto la sua vocazione nella formazione delle coscienze e nella preghiera incessante.
Anche lui ha fatto di tutto perché i suoi figli spirituali fossero santi e “pensassero alle cose di lassù” (cfr. Col 3,1). Ne dà conferma la testimonianza di padre Ruggiero Strignano: “In qualità di confessore e direttore di spirito fu molto ricercato.
Sempre disposto nell’ascoltare.
Quando seguiva un’anima la considerava più che figlia. Nella sua direzione sembrava di risentire la passione apostolica dell’apostolo Paolo allorquando diceva: ‘Figlioli miei, che di nuovo vi partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!’ (Gal 4,19)”.
L’epistolario di don Ruggero è ricco di Sacra Scrittura - anticipando in questo una sensibilità tipicamente moderna.
Ebbene, non è un caso notare come gli scritti paolini siano tra i più citati. Fece sue molte espressioni dell’Apostolo: si considerino, ad esempio, i termini con i quali si rivolgeva alle sue figlie spirituali: “mia gloria”, “mia corona” (Fil 4,1).
Tutto ciò testimonia che don Ruggero amava tanto san Paolo e ne conosceva capillarmente i testi.
E che dire del modo in cui visse le sofferenze della vita?
Non solo le contrarietà sopportate durante il ministero, ma anche quella ultima, gravissima, riguardante la sua salute?
In tutto questo è rimasto, alla stregua di Paolo, pieno di speranza: “noi ci vantiamo nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza” (Rm 5,3-4).
Don Ruggero non subì il dolore ma lo visse con spirito oblativo in unione alla Passione di Cristo. Una sua figlia spirituale recatasi in ospedale pochi giorni prima che egli morisse, raccolse la seguente altissima testimonianza di fede: “Ora devo compiere la mia parte, come dice san Paolo: ‘Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa’”.
La santità, si sa, è contagiosa.
Un santo può essere modello per altri cristiani perché tutti si avvicinino alla Santità per eccellenza, che risplende sul volto di Cristo. Don Raffaele e don Ruggero hanno imitato Paolo, come Paolo ha imitato a sua volta Cristo stesso (cfr. 1Cor 11,1). E hanno perciò raggiunto l’obiettivo della loro vocazione cristiana e sacerdotale, “combattendo la buona battaglia” e meritando la “corona di giustizia” (cfr. 2Tm 4,7-8).
Ringraziamo, dunque, il Signore per il dono di queste figure! Non mettiamole in bacheca, quasi fossero medaglie di vittorie passate di cui vantarci!
La storia non va rimpianta ma, al contrario, deve far crescere il nostro senso di responsabilità. A noi, quindi, oggi, non resta che continuare questa catena della santità: abbeveriamoci dell’esempio di questi nostri maestri e risaliamo con loro verso Cristo, per diventare noi stessi diffusori di santità per altri nostri fratelli.

Ruggiero Lattanzio

Sito a cura della Commissione Cultura e Comunicazioni Sociali dell'Arcidiocesi.
© 2003 - Editrice Rotas - Tutti i diritti sono riservati.